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Milano e i Monfalconi

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 25 Novembre 2009

sono andato a Milano, in centro, giornata grigia, ho preso il treno, partenza Pordenone arrivo stazione centrale, e già aver visto l’ ambiente di alcune stazioni ferroviarie passate, mi ha messo di cattivo umore. Anche se devo dire, la stazione centrale di Milano ha il suo fascino,

ricorda i tempi andati, con questo alone di malinconia che traspare da ogni singolo pezzo di ferro. Sembra la solita retorica sulle grandi città, ma è la cruda realtà, il centro di Milano è grigio, la gente triste, nessuno sorride, non si guardano, non si girano neanche se li spintoni, l’unico colloquio che hai è con baristi e camerieri.

Entrando in stazione per il viaggio di ritorno, ho incrociato lo sguardo di una ragazza, molto carina, con i capelli lunghi e la sigaretta in bocca. Aveva lo sguardo triste e spento, mi ha guardato per un attimo, di sfuggita, probabilmente incrocia molti occhi, era seduta su degli scalini di marmo. La cosa che mi era sfuggita al momento è che in braccio teneva un fagotto blu, era il suo bambino, piccolo, forse due anni, come il mio Alberto, aveva un berrettino che gli ricopriva molto il viso. Era seduto sulle ginocchia di questa ragazza, c’ era qualcosa di strano, che mi ha colpito molto, era completamente rivolto verso il muro che faceva da angolo alle scale e verso la madre.

Vedere quel bambino mi ha angosciato profondamente, stava vivendo la sua piccola vita diversa da tutti gli altri, senza avere colpa di trovarsi in quella situazione, non ha fatto assolutamente niente per essere lì. Cose così se ne vedono, ma questa volta mi sembrava diverso, il bambino era rivolto verso la madre, significava molto, voleva creare una barriera fra loro ed il mondo esterno. un muro invalicabile fra la gente che passava e il loro piccolo cosmo dato dall’ unica certezza della sua piccola vita: sua madre; certezza ancestrale, derivante dall’istinto umano che un piccolo bambino possiede, non certamente da cognizione o ragionamenti che sono di noi adulti. Era rivolto verso la sua mamma e verso quell’ angolo di cemento che in quel momento rappresentava tutto quello che quel bambino poteva desiderare, probabilmente non esiste una vita diversa da ricordare o da sognare, forse ha sempre vissuto così, in stazione centrale a Milano. Non so se quello che sto scrivendo corrisponde alla realtà, forse mi sbaglio, spero di non aver capito niente di ciò che ho visto. Non sono riuscito a vedere il viso di quel bambino, non so che espressione avesse, magari era felice, in fondo era vicino alla sua mamma, egoisticamente, sono contento di non averlo visto, perché so che si sarebbe impresso indelebilmente nella mia memoria, non sarei riuscito a scordarlo.

Si, devo dire che Milano non mi ha lasciato un bel ricordo, sono risalito su quel treno che mi ha riportato dai miei figli e mi sono sentito sollevato, tornavo verso le mie montagne. Umidità, foschia, tantissime formiche a due gambe che vanno e vengono, ognuna delle quali fa le sue cose. Vecchiette che chiedono l’ elemosina, quelle vecchiette che dovrebbero essere gli scrigni della memoria e della saggezza, lasciate per la strada, ai margini della società, a campare di stenti, le nonne delle favole trasformate in orribili streghe. Perché è inevitabile che ogni essere umano abbandonato al suo destino in quella maniera, possa pensare ogni male del mondo e degli esseri umani. Palazzoni formicaio sbiaditi, che tanto mi ricordano quelli visti alla periferia di Berlino, subito dopo il crollo dl muro, dove l' unico colore erano le cabine della Telekom gialle.

Sono entrato al Duomo di Milano, eclatante simbolo della Chiesa Cattolica e di conseguenza pace e fratellanza. Bello, maestoso, una grande, enorme, ciclopica cattedrale, sarebbe il posto giusto dove metterci l’ape regina a governare il suo popolo di formichine laboriose. Qualcuno ha paragonato i Monfalconi della Val Montanaia al Duomo di Milano, direi che il confronto non esiste, non ho visto niente che neanche lontanamente ricordi le mie montagne. Ho sentito ansia, fretta, premura, stress, di fronte al Campanile di Val Montanaia non ho mai provato queste sensazioni. Lì provo ammirazione, voglia di contemplazione, stupore per quello che vedo, all’ interno del Duomo, la sensazione era di trovarmi in un girone dell’ inferno, piuttosto che in una chiesa cattolica, con tutte quelle statue che poco hanno a che vedere con il bello della vita.

Penso a quel bambino ed alla sua vita, così diversa, lo so, è ipocrisia bella e buona, ma ogni tanto sento il cuore che si spacca, vorrebbe tanto cambiare le cose, almeno il mondo dei bambini, loro non hanno colpe, ma devono comunque rispondere di quello che gli adulti sbagliano. Poi il giusto e sbagliato è diverso per ognuno ma i bambini sono tutti uguali, di ogni razza e colore, sono tutti innocenti, dovrebbero essere gioiosi e far parte di un mondo fatato a loro riservato.

Se ne stava lì, seduto sulle gambe della madre, come a creare un universo grigio tutto suo, dove comunque c’ era la sua mamma. Rivolgeva la piccola schiena al mondo intero, come a creare una barriera fra loro e qualcosa che poco ha del fatato. Probabilmente questa sera dormirà anche lui nel suo lettino, lontano dalla stazione centrale, certo è che passerà del tempo, prima che possa mettere a letto i miei figli e non rivolgere il pensiero a quel bambino.

In effetti basta poco, prendi il treno a Pordenone ed in quattro ore sei catapultato dentro una grande metropoli con tutti i suoi pregi e difetti, ogni tanto bisognerebbe farlo per renderci conto di quanto siamo fortunati a vivere in mezzo alle nostre montagne, senza comodità, piaceri del vivere cool, lontano da tutto il mondo civile e dai confort della vita cittadina, si, siamo proprio fortunati.

Ho conosciuto una ragazza, mi raccontava dei privilegi riservati a chi vive in una grande città, il cinema, la possibilità di fare diverse cose nella pausa pranzo: il panino, ma veloce sennò non ce la fai, la lavanderia, la commissione, la parrucchiera, ecc, per poi tuffarsi di nuovo nel lavoro fino a sera. Le due ore per andare al lavoro e le due ore per tornare a casa, chiaramente cambiando mezzo di trasporto almeno tre volte. Dimenticavo una cosa molto importante: l’ aperitivo, ha anche un nome inglese ma ora non mi viene, è importantissimo farsi l’ aperitivo ad una certa ora, però attenti che ci sono dei giorni particolari, non vanno bene tutti. Serve a socializzare a trovare nuovi amici o a consolidare legami affettuosi, probabilmente esiste l’ aperitivo di lavoro.  Devo dire che in questo caso siamo proprio forti, noi gente di montagna, abbiamo un concetto diverso, è una vita che ci facciamo il nostro aperitivo, l ‘”ombra”, tutti i giorni e a tutte le ore e lo facciamo solamente perché ne abbiamo voglia, forse siamo stati dei precursori di uno stile di vita, chissà.

Ultimamente ho preso il treno e l’aereo, in entrambi i casi, sali in un posto e scendi in un altro, solo che dove scendi sei come un pesce fuor d’ acqua, fuori luogo, esisti lì momentaneamente, non godi dell’ esserci arrivato con le tue forze. La Forcella Savalons devi conquistarla con la forza delle tue gambe e a volte anche della mente, se sei lì ad ammirare il panorama è giusto che sia così. Penso che tutte quelle formichine che corrono a Milano siano un po’ fuori luogo, non credo che quello che ha creato tutto ciò avesse proprio questo in mente, probabilmente è frutto della nostra piccola ristretta mente umana.

Il rimpianto più grande, ed è certamente un male della nostra società, è quello di non aver fatto niente, sono passato oltre, di fronte a quel bambino. Forse mancava il coraggio, perché per questi gesti ci vuole tanto coraggio, più che a scendere la Nord dell’ Ortles con gli sci, ostentavo indifferenza mentre il mio cuore chiamava.

A quel bambino tutto il bene del mondo.

RENZO GRAVA



 

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